Rectify, alla ricerca dei limiti dell’umana compassione

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Rectify, Sundance Channel.
Prima stagione.
Lunedì, dal 22 aprile al 20 maggio.
Sito ufficiale

L’ultimo decennio, e persino qualcosa di più, se annoveriamo The Sopranos, o persino Oz, quali legittimi capostipite, è considerato pressoché all’unanimità l’età dell’oro della televisione, seppure per motivi ben diversi da quelli che caratterizzarono la Golden Age che a cavallo tra gli Anni ‘50 e gli Anni ‘60 vide l’esplosione e il consolidamento della popolarità del “gigante timido” quale principale forma di intrattenimento per il pubblico americano e britannico. Iniziata allo scadere del XX Secolo — scelta di tempo perfetta per rendere ancora più memorabile questo momento di svolta: si pensi a tutta la gamma di significati associati al “turn of the century”, alla “fine del millennio”, al “futuro alle porte”, che accompagnarono lo scoccare dell’anno 2000 — questa seconda stagione aurea della televisione è da qualche tempo oggetto di nefaste previsioni che ne profetizzano l’imminente conclusione, sotto la spinta di nuovi soggetti che assalgono il mercato senza che abbiano mai avuto a che fare con il modo tradizionale di pensare la televisione, e a causa della crescita esponenziale presso il grande pubblico di modalità di fruizione che, ormai, non hanno più nulla in comune con il familiare accomodarsi sul divano del salotto — di solito convenientemente posizionato di fronte all’apparecchio televisivo ma inevitabilmente situato ad una distanza dal telecomando superiore alla portata garantita dalla massima estensione delle nostre braccia. A differenza di quanto accaduto alla metà del secolo scorso, il lascito più evidente di questa recente epoca di splendore non è da misurare (soltanto) nei termini di un incremento del numero di spettatori, quanto, piuttosto, nella cancellazione di quella scomoda etichetta di “sorella scema del cinema” che da tempo gravava sulle spalle del mezzo televisivo. (Altro lascito fondamentale è stato l’imporsi di un modello di business che sarà anche a rischio, ma è stato in grado di garantire osceni margini di profitto ai vari canali via cavo. Ma di questo, in questa sede, poco ci importa). Grazie all’ascesa di colossi come HBO, e attraverso la messa in onda, lungo il corso degli anni “zero”, di prodotti di alta qualità, la televisione ha radicalmente cambiato il modo di raccontare le sue storie, sfruttando le potenzialità offerte dalla serialità e allo stesso tempo abbracciando un linguaggio visivo la cui ricchezza e perizia non ha avuto nulla da invidiare a quel fratello maggiore crogiolatosi troppo a lungo nella presunzione di essere l’unico mezzo di massa in grado di veicolare contenuti “d’autore”.

That’s why you’re the saddest man I’ve ever known,
‘cause you can’t feel anything for anybody. You can’t cry for anybody.

Eppure… è mancato qualcosa. In tutti questi anni, dopo aver assistito a decine di serie e personaggi entrati di prepotenza nell’immaginario collettivo, a centinaia di episodi memorabili, quanti di questi hanno davvero saputo toccare le corde profonde dell’umana compassione? Quante scene, in queste innumerevoli ore di storie di volta in volta avvincenti, appassionanti, talvolta assurde, surreali, persino grottesche, vi hanno lasciato con un groppo in gola difficile da sciogliere, in forte sintonia empatica con i personaggi che vivono dentro lo schermo? Giocare con questo genere di emozioni, rappresentarle in modo credibile (leggi: umano) e non stereotipato e suscitarle senza apparire subdoli, si è dimostrato, anche per la tv, un compito spesso arduo, e il rischio di scadere nel melodrammatico, nel patetico o nel “cheesy” è apparso sempre troppo incombente. Qualunque cosa abbia detto McLuhan a proposito dell’ipotetica freddezza del medium e della sua presunta capacità di coinvolgere profondamente lo spettatore, scatenare in lui una reazione di genuina commozione evitando al contempo di il rischio di ottenere in cambio solo un fragoroso “groan” di disapprovazione, non è certo un compito facile. Magari sto generalizzando, e la ragione di questa percepita assenza è dovuta solo alla mia particolare insensibilità. Magari sono troppo scettico per allentare il controllo razionale che paralizza e neutralizza le emozioni più intime, quel campanello che infallibilmente ti ricorda che quello a cui stai assistendo è solo finzione, e come tale va vissuta, e non si merita qualche lacrima. E quindi, pooof!, la tensione emotiva si allenta sempre un attimo prima di scivolare nell’esperienza di compartecipazione profonda alle sofferenze dei protagonisti.

Fortunatamente, ci sono delle eccezioni. Poche, talmente poche da poter essere contate sulle proverbiali dita di una mano. Ma, oh boy, che eccezioni! Come evitare la stretta al cuore quando si assiste, impotenti tanto quanto il Sgt. Carver, alla sconfitta delle istituzioni e alla rabbia, ma soprattutto alla paura e alla disillusione di Randy, abbandonato al suo destino da quelle stesse istituzioni che dicevano di volerlo proteggere? Come non provare la stessa disperazione di Annie di fronte all’assurdo omicidio di Harley, vittima incolpevole di una città abbandonata a sé stessa? Come non lasciarsi travolgere dal dramma interiore di Nate, dilaniato dal senso di colpa per la scomparsa di Lisa? Come non commuoversi di fronte all’atto di umana pietà di Al Swearengen, unico bagliore di umanità in un personaggio altrimenti ferocissimo, nel porre fine alle atroci sofferenze del Reverendo Smith?

pecanE qui — alla fine di questa lunga e forse irrilevante premessa — arriviamo all’oggetto di questa recensione, ovvero Rectify. Cosa c’entra Rectify con tutto questo discorso sul passato e sull’ipotetico futuro della tv, sulla capacità della stessa di suscitare sentimenti di compassione, e con la mia personale classifica dei momenti più tristi della storia della tv? C’entra, per almeno tre ragioni.

C’entra perché, alla faccia di tutti i profeti e menagrami, Rectify è la prima serie originale prodotta da Sundance Channel, che è sì un protagonista esordiente nel campo della produzione di serie scripted, ma non appartiene certo a quella cerchia di aggressivi “nuovi soggetti” che ambiscono alla distruzione dell’attuale modello televisivo servendosi dell’ariete delle nuove tecnologie. Al contrario, Sundance Channel è un vero e proprio dinosauro, se non nell’età di sicuro nella mentalità, come è facile immaginare se si tengono in considerazione i lontani legami di parentela con il Sundance Institute e il Sundance Film Festival, da cui derivano tanto il nome quanto l’attitudine “indie”, e l’attuale appartenenza al gruppo AMC Networks, recente acquisizione che lo ha reso cugino di alcuni protagonisti già piuttosto noti della tv contemporanea, ovvero AMC e IFC. Sundance Channel potrebbe essere un dinosauro comparso troppo tardi sulla scena dell’evoluzione, e il meteorite della tv via internet potrebbe decretarne l’estinzione ancora prima che il canale abbia davvero l’effettiva possibilità di evolversi in qualcosa di più di un piccolo rettile tra i giganti che ancora popolano questa (presunta) coda del mesozoico televisivo. Fatemelo dire: qualora Rectify sia davvero indicativo del potenziale che questo canale è in grado di esprimere (e la co-produzione di Top of The Lake sembrerebbe essere un altro piccolo indizio in questa direzione), sarebbe davvero un peccato se questo restasse inespresso a causa dello scenario apocalittico a cui si è accennato sopra.

E poi c’entra anche perché Rectify, in questa breve prima stagione, non solo ha messo in mostra una sensibilità cinematografica rara anche per gli ottimi livelli a cui la tv ci ha ormai abituato, ma soprattutto è stato in grado, in sole sei puntate, di contribuire in modo decisivo a quella personale e ristrettissima lista di episodi in grado di farmi prendere a cuore le sorti dei suoi personaggi, e provare, ripetutamente, in modo talvolta travolgente, quel senso di compartecipazione emotiva di cui lamentavo la mancanza.

Ed infine, ultimo legame con la mia lunga e divagante introduzione, Rectify è una creazione di Ray McKinnon, che ne ha al contempo curato anche la produzione, in gran parte la scrittura, e, perché no, la regia del season finale. Ray chi?

“Salve, sono Ray McKinnon. Forse vi ricorderete di me nel ruolo del Reverendo Smith nell’indimenticabile e mai abbastanza rimpianto Deadwood (e in quello di Linc Potter nel più recente ma di svariati ordini di magnitudine meno entusiasmante Sons of Anarchy)”.

E con questo chiudo il cerchio aperto dall’ultimo episodio citato in quella lista.

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Prima di elencare tutte le buone ragioni che idealmente dovrebbero spingervi a dedicare quasi cinque ore del vostro tempo alla visione di questa prima (mini)stagione, credo sia necessaria una precisazione: nonostante su trailer e materiali promozionali campeggi in bella evidenza la scritta “Breaking Bad”, le due serie non hanno nulla in comune. Nulla, salvo il nome dei co-produttori Melissa Bernstein e Mark Johnson, agitati maliziosamente come specchietto per le allodole in quanto produttori esecutivi anche dell’acclamata stella del palinsesto AMC: bene, la parentela tra le due serie inizia e muore qui.

I primi dieci minuti del primo episodio sono sufficienti a gettare le basi della storia: Daniel Holden viene scarcerato dopo aver trascorso gli ultimi diciannove anni della sua vita nel braccio della morte, la sua sentenza di condanna ribaltata dai risultati di un recente test del DNA (tecnologia che, all’epoca del processo, non era ancora disponibile). Le nuove prove insinuano il ragionevole dubbio che Daniel, benché reo confesso dello stupro e dell’omicidio della sua fidanzata ai tempi del liceo, la sedicenne Hannah Dean, possa non essere il colpevole, o quantomeno l’unico colpevole dell’atroce delitto. Condannato appena diciottenne, scampato a ben cinque esecuzioni durante la sua permanenza nel Death Row di un carcere della Georgia, Daniel si trova improvvisamente libero grazie ad un cavillo giudiziario e all’incrollabile ostinazione della sorella Amantha nel pretendere l’ammissibilità dei risultati del test. Libero sì, ma, agli occhi di (quasi) tutti, non innocente: la scarcerazione e il ritorno a casa nella piccola cittadina (fittizia) di Paulie, Georgia, profondo sud degli Stati Uniti, sono destinati a turbare la quiete e l’apparente normalità faticosamente raggiunta nel corso deii quasi due decenni trascorsi dal tragico evento, oltre a suscitare parecchio nervosismo sia nello sceriffo, che incriminò Daniel al termine di indagini condotte secondo procedure alquanto dubbie, sia nel senatore Foulkes, il quale deve gran parte delle sue fortune politiche proprio al fatto di essere stato il pubblico ministero che fece condannare Daniel.

Ora alzi la mano chi, dopo aver letto questa sinossi, non ha tratto almeno una delle seguenti conclusioni:

  1. Daniel è stato incarcerato ingiustamente;
  2. non solo Daniel è stato incarcerato ingiustamente, ma la polizia (o il giudice, o il politico) lo vorrà incastrare di nuovo;
  3. quello che vedremo sarà la storia del secondo processo di Daniel;
  4. anzi, sarà la storia di Daniel che cercherà di trovare le prove che incastreranno i veri assassini, dovendo al contempo sfuggire alla polizia che lo ritiene (in buona o in mala fede, a seconda del subplot) ancora il colpevole;
  5. dulcis in fundo, sarà la solita storia che ci racconta, qualora ce ne fosse ancora bisogno, di quanto è aberrante la pena di morte. Ah, e ovviamente si parlerà della violenza nelle carceri.

Io, ingenuo, ho fatto tutte queste ipotesi a partire dal cold opening del primo episodio. Che vi devo dire, troppe ore di tv con troppi cliché ti rendono diffidente.

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E invece, per fortuna, Rectify va da tutt’altra parte. McKinnon ci fa intravedere i dettagli che puntano verso questi schemi narrativi consolidati che, come un riflesso condizionato, lo spettatore tende a dare per scontati una volta posto di fronte a queste premesse. Permette che la storia giochi con queste aspettative, lasciando filtrare più e più volte quegli elementi che contribuiscono a stuzzicarle. Abilmente, ci fa credere di avere questa carta in mano e di poterla — o volerla — giocare da un momento all’altro, ma, in realtà, ci sta conducendo, a passi lenti e misurati, verso l’esplorazione di luoghi del tutto inaspettati. Perché Rectify non è un procedural drama, né un crime drama, né un legal thriller. Non è un film di denuncia nei confronti dell’inumanità del “complesso carcerario-industriale” o dell’assurdità ancora più inumana della pena di morte. Rectify non è Oz (toh, ho chiuso un altro cerchio!), e non è nemmeno la storia di “chi ha ucciso Hannah Dean” (does it ring a bell?). Qui non c’è un “ispettore Javert” che dà la caccia al nostro eroe ingiustamente incarcerato, anche perché, forse, non c’è un “eroe ingiustamente incarcerato”. Infatti, Rectify non solo rifugge continuamente la fatidica domanda (“Ma alla fine, Daniel è colpevole o no?”), ma, cosa ancor più straordinaria, progressivamente riesce a farci perdere qualunque interesse per la risposta, canalizzando la nostra attenzione su un ordine di problemi completamente diverso (“Daniel, che sia innocente o colpevole, come percepisce sé stesso? E come lo percepiscono gli altri?”). E questa è una grande trovata, perché sublima uno dei tratti che hanno reso eccellente gran parte della tv contemporanea, ovvero il rifiuto del manicheismo buoni vs cattivi, del bianco vs nero, preferendo indugiare sulle infinite sfumature di grigio che convivono nella stessa persona. Costringendoci a rifiutare le scelte morali dicotomiche, questa televisione ci ha chiesto di identificarci in figure moralmente dubbie, di simpatizzare per un serial killer come Dexter, di capire le ragioni che portano Walt White a diventare un signore della droga, o di solidarizzare con le difficoltà di Tony Soprano nel gestire la sua famiglia e il suo clan mafioso, oltre che accettare la scomparsa delle adorate anatre. Rectify si spinge persino più in là, ponendoci di fronte ad una situazione ancora più estrema, poiché elimina quell’alone di grottesco che potevamo rintracciare in ciascuna di queste figure. Si può mai entrare in sintonia con Daniel, che potrebbe confermarsi uno stupratore omicida? E nel caso fosse colpevole, si può arrivare al punto di comprendere le ragioni di un crimine così efferato? Si può accettare una persona anche solo sfiorata dal sospetto che nel suo passato ci sia una macchia così indelebile? Ai più questo dovrebbe risultare parecchio difficile, presumo. Eppure…

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I’m just so aware that most of what I draw on from inside my head are things I’ve read about.
My real life experiences are actually rather narrow.

Daniel è reduce da vent’anni di isolamento quasi completo, vent’anni trascorsi nell’angusto spazio di una cella 3 x 2, circondato solo dal bianco accecante di muri senza finestre. Unica compagnia, i due prigioneri del braccio detenuti nelle celle adiacenti alla sua, con i quali riesce a scambiare qualche parola attraverso le grate di areazione (ma saranno poi reali queste conversazioni che riviviamo attraverso i ricordi di Daniel?), e tanti libri (ma non troppi, ché le autorità carcerarie non te lo perdonano). Incarcerato poco più che adolescente, dopo una vita spesa nel tentativo di accogliere l’ineluttabilità della morte, al momento dell’inaspettata liberazione Daniel si trova catapultato in un mondo che non conosce più, disorientato come potrebbe esserlo un uomo proveniente dal passato messo di fronte agli iPod, ai chilometri quadrati di merci esposte in un Walmart, ai lettori DVD e agli energy drinks che ormai fanno parte della nostra quotidianità. Soprattutto, Daniel ha disimparato — o forse non ha mai avuto modo di imparare — a relazionarsi con gli altri, dando vita ad un curioso personaggio perennemente spaesato e privo delle più basilari social skills che orientano le interazioni quotidiane tra le persone e che si è soliti attribuire agli adulti. Daniel è totalmente analfabeta del mondo circostante e delle convenzioni sociali su cui questo si fonda, ed è così alieno alle norme che regolano la vita quotidiana da essere incapace a sostenere persino la più banale delle conversazioni: di fronte all’innocua affermazione “sure is a beautiful day”, canonica considerazione sul clima e universale rompighiaccio di un’ordinario scambio comunicativo, l’unico commento che è in grado di profferire è uno stentoreo ed enigmatico “it… um… has lots of colors…”. Ma Daniel è davvero un adulto, come la sua età anagrafica lascia supporre? Oppure quell’impacciato individuo incapace di indossare una cravatta prima di presentarsi alla stampa il giorno della sua liberazione è ancora lo stesso teenager di vent’anni prima?

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Magistrale, nel rappresentare la sofferenza di questo personaggio alle prese con la sua prima settimana di libertà (questo l’arco temporale coperto dai primi sei episodi), è l’interpretazione di Aden Young: l’attore australiano sfodera una prestazione di un’intensità straordinaria, capace di trasmettere attraverso la sua fisicità le mille emozioni contrastanti che percorrono Daniel quando, di volta in volta, deve cercare di adeguarsi alle difficoltà della madre nel riuscire ad accogliere tra le sue braccia un figlio che riteneva perduto, fronteggiare l’ostilità dei cittadini di Paulie, e affrontare il costante, ininterrotto, disagio nel percepire la propria inadeguatezza in qualsiasi contesto. Young si muove in uno stato quasi catatonico, indossando una maschera che è, allo stesso tempo, l’espressione perfetta del gigante punto interrogativo che compare nella testa di Daniel di fronte a tutte le novità, e del lacerante conflitto interiore di chi, da un lato, non può non apprezzare l’idea di avere a disposizione una seconda chance, ma che dall’altro dimostra di non sapere bene cosa farne, di questa seconda possibilità. Continuamente messo in crisi dalle infinite variabili della vita di tutti i giorni (“there were variables inside, but wasn’t like out here”), Daniel finisce per essere il classico “weirdo” la cui stranezza è resa ancora più evidente dalla reazione dei membri di una comunità conservatrice altrettanto inetta nell’interagire con chi, in qualche modo, devia dalla supposta “normalità”. Ed è l’intensità della recitazione di Young la ragione principale per cui, volenti o nolenti, ci troviamo in sintonia con questo personaggio ambiguo, il cavallo di Troia attraverso il quale la questione della sua innocenza perde rilevanza e ciò che resta è il senso di partecipazione profonda alle difficoltà di un uomo incredibilmente fragile.

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I’m not sure what to make of this drastic change of course in my life.
I’m certainly not against it.

Rectify è una storia sul cambiamento, sulle reazioni al cambiamento, e sulle strategie messe in atto dalle persone per cercare di neutralizzare quanto più possibile l’impatto del cambiamento. La scarcerazione di Daniel è un sassolino lanciato nello stagno apparentemente placido di tante vite ormai stabilizzate, ognuna a suo modo, da quasi un ventennio, e Rectify segue meticolosamente le onde concentriche che si propagano dal centro di questa perturbazione dello status quo. Una perturbazione che da Daniel, che ne è l’origine ma è soprattutto il primo a dover trovare il modo, e forse anche una ragione convincente, per non esserne travolto, si estende via via alla sua famiglia nucleare, alla famiglia acquisita attraverso il secondo matrimonio della madre, ai familiari della vittima ancora residenti in città, alle istituzIoni di Paulie, fino a lambire tutta la comunità di quest’angolo archetipico del sud rurale e tradizionalista, cittadina in piena Bible Belt nella quale, secondo la felice sintesi di Amantha, “you can sentence a man to die, but you can’t buy a beer”.

Estremamente efficace, nel rappresentare il trauma del cambiamento, la violenza con cui la realtà fisica si apre un varco in un sensorium atrofizzato dai lunghi anni del carcere: la luce invade la camera da letto di Daniel — finalmente dotata di finestre! — ed egli è costretto a ripristinare uno stato di semioscurità per non esserne travolto; l’iPod del fratellastro Jared vomita le note di un pezzo rap ad un volume parossistico; la prossimità fisica con le persone e il contatto con i familiari, nella forma innocua di un abbraccio, diventano inevitabilmente motivo di imbarazzo e frustrazione. Da qui inizia un lungo ed accidentato percorso di rieducazione sensoriale, che coinvolge la vista (a partire da un ilare visita oculistica, al quale Daniel, proprio come un bambino, si reca accompagnato dalla mamma), l’udito (attraverso l’ascolto delle musiche dell’adolescenza — Stone Temple Pilots e Cracker su tutti) e il tatto (stimolato dal contatto dei piedi nudi sull’erba), ma che non sembra mai compiersi in modo definitivo.

Mentre è compito del fratellastro Ted, Jr. (Clayne Crawford) dare voce, con una franchezza che travalica abbondantemente nella stronzaggine, caratteristica saliente di questo good ol’ boy spesso egoista ed insensibile, al sentimento che, bene o male, tutti provano nei confronti del ritorno di Daniel: “I hate to say it, but we all thought he’d be dead by now anyway”. Ed invece, bontà sua, Daniel non è morto, e il cambiamento per la famiglia Holden/Talbot si traduce nella preoccupazione di Ted per il danno d’immagine che la presenza di un presunto colpevole provocherà all’impresa di famiglia, nel frastornato agire della madre di Daniel (J. Smith-Cameron), alla vana ricerca di un modo per ripristinare una relazione interrotta, e nell’ostentata calma dal patrigno Ted Sr. (Bruce McKinnon), che decide di ignorare in qualsiasi modo il problema trincerandosi dietro l’ostinata sicurezza della sua innocenza. Senza dimenticare l’afflato salvifico scatenato in Tawney (Adelaide Clemens), giovane mogliettina di Ted e fervente born-again Christian, tanto ingenua quanto ben intenzionata, per la prima volta non in perfetta sintonia con il poco simpatico marito in quanto fermamente convinta che trovare dio sia la soluzione per tutti i problemi di Daniel.

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Di segno opposto la reazione della combattiva sorella Amantha (una fantastica, bellissima Abigail Spencer), personaggio travolgente diventato sin dal primo momento il mio ultimo crush televisivo dopo Kima Greggs e Annie Tallarico, che, oltre al ruolo decisivo nella liberazione di Daniel, si dedica alla protezione del fratello con una devozione ed una tenacia senza dubbio ammirevoli, ma che ben presto tracimano in un’attenzione oppressiva tale da trasformarla in una presenza soffocante. Anche Amantha deve affrontare il cambiamento, lasciare che Daniel riacquisti confidenza con la vita seguendo un percorso che lei non potrà determinare e accettare, sostanzialmente, l’evidente necessità per sé stessa di costruirsi una ragione di vita finalmente scollegata dalla drammatica vicenda che ha coinvolto il fratello.

Le strazianti parole urlate ai microfoni dei reporter, “why ain’t you dead, Daniel Holden?! Why ain’t you dead?!”, esprimono invece tutta la disperazione e la rabbia della madre di Hannah, del cui dolore, in uno degli ennesimi testacoda emotivi con cui Rectify ci costringe a fare i conti. ci sentiamo inesorabilmente partecipi.

Di questo stesso dolore sono partecipi i membri della comunità di Paulie, nei quali l’onda del cambiamento suscita aperta ostilità nei confronti di colui che è, per tutti, il brutale assassino di una ragazza nel fiore della sua gioventù. Un’ostilità, però, mista ad insicurezza, dettata dalla difficoltà di comprendere e accettare la ragione per cui un principio tanto semplice quanto brutale, quella legge del taglione su cui si impernia la concezione della giustizia in questo angolo di mondo, sia stato violato. D’altra parte, sottolinea il vecchio avvocato di Daniel (interpretato dal veterano Hal Holbrook), dovremmo finalmente convincerci che tutta l’avveneristica tecnologia di cui disponiamo, e il mito del progresso che l’accompagna, è solo una confortante menzogna dietro la quale si cela una sconcertante verità: l’umanità è irrimediabilmente ferma al medioevo.

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Rectify esplora tutto questo con un andamento estremamente meditativo, quasi a seguire il dolce southern drawl in cui si esprimono i personaggi. Che è il modo più gentile che ho trovato per evitare di dire che Rectify è lento, lentissimo, lento da morire. Con questo, non voglio spaventare nessuno. Mi rendo conto che questa non dovrebbe essere, di per sé, una ragione sufficiente per precludersi a priori la visione di un’opera, e io credo fermamente che non lo sia, ma è anche comprensibile che l’eccessiva titubanza nello sviluppare la trama possa rivelarsi uno scoglio talvolta troppo grande per affrontare la visione. L’offerta televisiva è ricca, e soprattutto per chi, come me, ne fruisce facendo ricorso al lato… ahem, oscuro (aka torrent & affini), la tentazione di lasciar perdere passando immediatamente a qualcosa che appare più coinvolgente è sempre molto forte. Quindi, sia ben chiaro: Rectify procede ad un passo più controllato di qualunque altra cosa abbiate mai visto in tv, roba che Mad Men, notoriamente poco più brioso di un’opera di Bill Viola, al confronto potrebbe essere scambiato per un contropiede di Ty Lawson. Ora, fatevi un favore: per quanto possibile, ignorate questo avvertimento e sconfiggete l’iniziale straniamento causato da uno stortytelling non convenzionale, perché basta davvero poco per farsi ipnotizzare da Rectify e dal suo modo quieto e riflessivo di esplorare l’articolata psicologia dei suoi personaggi, con un incedere pacato che esalta l’intensità di questo dramma introspettivo e permette di assaporare in profondità le complesse e spesso non confortanti emozioni che questa serie è in grado di regalare. Tutto questo senza voler comunque sminuire la costruzione della trama, che, come si diceva all’inizio, gioca sapientemente con le aspettative dello spettatore: ogni qual volta si percepisce l’imminenza di una svolta narrativa la cui direzione appare prevedibile, ecco che Rectify prende un’altra strada, lasciando aperte delle questioni che appaiono vitali, ma che rapidamente passano sullo sfondo nel momento in cui riprende l’osservazione minuziosa dei personaggi.

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Rectify non nasconde le sue ambizioni cinematografiche, tanto nella scrittura quanto nella dimensione estetica. Il racconto, soprattutto nei primi episodi, procede per impressioni, attraverso la giustapposizione di piccoli frammenti adatti a creare un mosaico di sensazioni percettive ed emotive talvolta contrastanti, che danno luogo a scene di una bellezza visiva spesso stordente, immerse come sono in una luce che deve molto al Terrence Malick di Tree of Life, in aperto contrasto con una vicenda che prende le mosse da un crimine orrendo. Vicenda che, nel solco del classico gotico americano declinato in salsa Southern (ambientazione che lo rende perfettamente adeguato a sposarsi con il cinema indie per cui il Sundance Festival è diventato famoso, tutto teso ad analizzare l’America attraverso le piccole storie della sterminata provincia americana), ha le sue divagazioni nel campo del magico, sia attraverso una deliberata confusione tra i piani della realtà, dell’immaginazione e del sogno, sia per mezzo di un’insistita simbologia religiosa, talvolta esplicita (nei titoli degli episodi, o nell’onnipresente tema battesimale), talvolta implicita, per non dire esoterica (l’orario di una sveglia che punta ad un preciso versetto del Vangelo, o la complessa allusione alle tentazioni di Cristo).

La prima serie è andata ben oltre le più rosee aspettative, e — per fortuna, dico io — Rectify è stato prontamente rinnovato per una seconda stagione, estesa a ben dieci episodi. Questa scelta di Sundance Channel ha destato qualche timore, perché, per quanto sorprendente, non è chiaro quanto resti da esplorare dell’idea alla base di Rectify, e di come questa possa sostenere il peso di una stagione più lunga. Dubbio legittimo, ma, a mio modesto parere, fuorviante. Considerazione che mi spinge ad avventurarmi in un azzardato paragone cestistico: gli appassionati di basket universitario americano lamentano spesso la tendenza di molti analisti a giudicare i giocatori di livello collegiale sulla base del loro potenziale NBA, invece di esprimere valutazioni in merito al loro impatto sul livello di gioco a cui appartengono e gustarsi le loro prestazioni nel campionato NCAA. Pazienza, dicono i veri appassionati, se l’ala piccola John Doe non sarà in grado di esprimersi con la stessa efficacia al piano di sopra, o se Tom, Dick e Harry non sembrano fisicamente adatti alle battaglie sotto canestro che dovranno affrontare tra i pro: ciò che conta sono le emozioni sportive che sono in grado di regalarci hic et nunc. Lo stesso discorso dovrebbe essere fatto per Rectify: piuttosto che rimuginare sulla possibile difficoltà che questa serie potrebbe incontrare nel mantenere lo stesso livello della prima stagione lungo l’arco di una stagione di durata significativamente superiore, la cosa migliore da fare è godersi questi sei episodi, ed ammirare tutti i piccoli dettagli del gioiello più brillante di questa primavera 2013.

Note a margine

  • È indubbiamente molto difficile riuscire ad immaginare quali conseguenze possa avere una lunga detenzione sullo sviluppo psicologico di un essere umano, e quali possano essere gli effetti di un brusco reinserimento nella società. A questo proposito può essere illuminante una trasmissione radiofonica andata in onda su NPR giusto qualche settimana fa.
  • È un fatto personale, ed è probabilmente tutta colpa di Steinbeck, ma il fatto che i personaggi si esprimano nel cantilenante accento Southern (a quanto pare piuttosto accurato) è per me ragione sufficiente per apprezzare la serie.
  • Daniel: “You’re my Beatrice”. Tawney: “What?” Daniel: “From ‘The Divine Comedy’”. Tawney: “I… I don’t know what that is…”. Sicuri che il modello di istruzione che vogliamo importare sia quello americano, si?

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