Wanderful Asia #8 – Passaggio a Nord Ovest

Mario e Thomas sono partiti per un’avventura che definiscono semplicemente “un lungo viaggio in moto”. Noi ne siamo affascinati, li seguiremo quindi passo passo rimandando al loro blog, accostando alle loro tappe di volta in volta un libro, un film, un disco affinché il loro “semplice” viaggio in moto possa essere per noi esperienza diretta. Hanno già percorso 11210 chilometri; attraversato Albania, Grecia, Turchia e Iran; arriveranno in Mongolia per poi tornare indietro toccando Laos e Vietnam.

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Da molti punti di vista, Lahore è la quintessenza della città di frontiera: affollata, febbrile e vitale. Ma è soprattutto un luogo dove differenti culture e tradizioni si mescolano e, come spesso accade, si arricchiscono l’una dell’altra. Non sappiamo come fosse la città nel 1947, quando un doloroso confine fu tracciato non distante da qui, creando il Pakistan. Se già ci fosse il melting-pot di culture che è osservabile oggi, o se è stato un effetto collaterale della Divisione, con gli Indu e i Mussulmani in fuga dalle loro case ormai appartenenti a un’altra nazione, stabilitisi qui per rimanere il più vicino possibile ai loro luoghi d’origine.

Quel che è certo è che una tale mescolanza di usi e rituali è stata una boccata d’aria fresca dopo aver viaggiato così a lungo in un paese dove gli schemi della vita quotidiana sono ben definiti e rigidi, perlomeno in apparenza.

La città offre molte cose da vedere e in molti si sono offerti di accompagnarci in giro.

Quando si esamina un mobile, è sui bordi che bisogna concentrarsi per vedere quanto bravo è stato l’artigiano. Questa considerazione ci ha spinti a Peshawar qualche giorno dopo… ed è stata una fortuna, perché la città valeva abbondantemente le cinque ore di viaggio in pulman da Islamabad.

È difficile dire cosa la renda così attraente. Ancora una volta è la somma dei fattori a comporre l’insieme: forti influenze Pashtun, la vicinanza con aree tribali virtualmente indipendenti, montanari con il loro carico di tradizioni prvenienti da luoghi remoti come la Swat Valley, Chitral e Gilgit, un cospicuo gruppo di afghani stazionanti nell’ufficiosa no-man’s land che dalla periferia della città si estende fino al Khyber Pass e oltre, e ovviamente il consueto manipolo di avventurieri romantici, venditori senza scrupoli, burocrati di basso rango, sedicenti diplomatici e autentici fanatici richiamati qui dalla guerra. Alcuni cercano di fermarla, altri di prolungarla il più possibile. Tutti comunque la sfruttano al massimo, nel frattempo.

Peshwar è ancora un luogo in cui è possibile cenare in compagnia di un vecchio aristocratico afgano dal fluente inglese (eredità di un’educazione ad Harward e una vita a Londra) che ricorda i tempi in cui Massud gli parlava dei rischi della politica estera afgana negli anni 90, e che parla della situazione attuale con l’acuto sarcasmo di un saggio e la fredda lucidità di chi l’ha vissuta dall’interno.

La prima foto qui sopra è stata scattata durante le celebrazioni notturne di un importante evento islamico. Da notare, a) i fedeli che, per quanto numerosi, non superano il numero di agenti di sicurezza con i mitra regolarmente puntati ad altezza d’uomo e b) che la processione  è stata conclusa da uno spettacolo pirotecnico multicolore e non, come accade con crescente frequenza, da qualcuno che si fa saltare in aria tra la folla.

Dopo esserci visti rifiutare il premesso di andare al Khyber Pass, a Kabul, alla Swat Valley e – ovviamente – nelle aree tribali, non abbiamo potuto far altro che tornare sconfitti a Islamabad per recuperare i nosti visti di re-ingresso e superare gli ultimi ostacoli burocratici.

Non c’è molto da dire della città, non c’è molto da vedere (e niente da fare) e c’è ancor meno di cui scrivere. Islambad è più un esperimento mentale che una città vera e propria. È una città-Frankenstein nata da carta e penna, più che da una viva e vitale comunità di persone. È il tentativo fallito di mettere insieme le varie cellule di un organismo nella speranza che la cosa risultante prenda vita. Ovviamente non è successo e ora sembra un plastico a grandezza naturale, un luogo in espansione per burocrati e un paradiso per ufficiali dell’esercito che vivono, si muovono e muoiono nei suoi settori a forma di griglia, codificati numericamente, squadrati, identici e mortalmente noiosi.

Siamo fuggiti il prima possibile, per fare il nostro ingresso trionfale in India alcuni giorni dopo.

[il blog di Mario e Thomas]