In quella biblioteca c’è anche il tuo nome

Lo ammetterò subito: così, per sgombrare il campo da ogni ipocrisia. L’unica ragione per cui mi sono accostato a La biblioteca dei morti di Glenn Cooper è stata, fin dall’inizio, l’intenzione di distruggerlo. Senza pietà. Scovarne fin nei dettagli le ingenuità narrative, le ridicolaggini d’intreccio, l’enorme stupidità della costruzione.

Avevo anche già compilato una lista mentale di complici da citare, per rendere ancora più preciso e letale il fuoco di fila del mio plotone d’esecuzione verbale: se non ricordo male, comprendeva senz’altro l’orrido Dan Brown, ma anche i più cauti, ma non meno deprecabili Matthew Pearl, Ian Caldwell e Dustin Thomason, e, perché no, anche Colleen McCullough. Una turpe torma di parassiti riusciti, ahimè, nell’intento di accumulare una nutrita schiera di fedelissimi attraverso l’operazione spudorata di violentare un’innocente Storia per produrre pessima narrativa. E se di quei fedelissimi l’uno sei tu, francamente mi inquieta che tu stia leggendo questa recensione.

Agli ingredienti essenziali che hanno decretato il successo di oggetti come Il codice Da Vinci (una trama risibile imperniata su una teoria complottistica screditata da secoli, una scrittura vergognosa e un protagonista improbabile), La biblioteca dei morti risponde infatti con quei perfetti antidoti che, in un mondo ideale, ci si aspetterebbe di ritrovare alla base di ogni decente prodotto narrativo di consumo: vale a dire, lo sforzo di concepire un’idea originale e, ammettiamolo, nemmeno priva di qualche attrattiva; una scrittura narrativa piuttosto coinvolgente (anche se eccessivamente “filmica”; talvolta sembra di leggere una sceneggiatura, e – per fortuna, fino a prova contraria – libri e film sono ancora due cose ben distinte); personaggi normali, con cui il lettore medio riesce persino a stabilire una sorta di empatia.

Il continuo avvicendarsi dei piani cronologici ci porta alternativamente nell’alto Medioevo dell’Isola di Wight, all’Abbazia di Vectis, dove generazioni di amanuensi dai capelli rossi e dagli occhi verdi, nell’arco di cinque secoli, arrivano a riempire 700.000 volumi di nomi affiancati da date; nella Londra del 1947, all’alba della fine del secondo conflitto mondiale, dove Winston Churchill si trova a gestire una patata bollente di proporzioni colossali che poi passa nelle mani del Presidente americanoTruman (notevole tra l’altro il ribaltamento delle teorie complottistiche sull’origine dell’Area 51); e negli Stati Uniti di oggi (anzi, di ieri: il romanzo è ambientato immediatamente dopo la sua pubblicazione, nel luglio-agosto 2009), dove in mano all’agente speciale del FBI Will Piper, molto amante dell’alcool e ormai molto poco del suo lavoro, finisce il caso di un serial killer che apparentemente si diverte ad ammazzare la gente a caso avvertendo prima le vittime con una cartolina su cui è segnato il giorno del loro decesso. Piccolo dettaglio: alcune delle vittime muoiono da sole.

Ad ogni salto temporale, un indizio: ad ogni indizio, il progressivo disvelamento di un segreto che potrebbe porre tanti e tali interrogativi da far vacillare il nostro intero sistema di credenze, per non dire l’organizzazione stessa della nostra società. Si potrebbe discutere di libero arbitrio, di predestinazione, di morale sociale. Eppure, proprio qui sta la forza del libro di Glenn Cooper: nel non dire, di tutto ciò, assolutamente nulla. Forse conscio dei suoi limiti di scrittore, o forse per nulla interessato a imbarcarsi in argomenti più grandi di lui, Cooper non affronta nemmeno di striscio le imponenti tematiche che l’idea alla base del suo racconto produce. Tutto ciò che fa è raccontarci una storia: una storia onesta, che si lascia leggere d’un fiato (per servirci di un’espressione abusata da chi, senza sapere che altro dire, vuole piazzare a tutti i costi prodotti del genere), e che, se non ci lascerà per giorni interrogativi su cui riflettere, nemmeno ci lascerà la sensazione di aver letto un libro scritto da un venditore di fumo che vuole insegnare la teologia agli europei, che l’hanno inventata.

Da quello che leggo in giro, in questo errore Cooper è caduto nel suo secondo libro, Il libro delle anime. Il fatto di aver intravisto qua e là i nomi di Shakespeare e Calvino (Giovanni, non Italo) come comparse del nuovo racconto mi fa sinceramente passare la voglia anche solo di prenderlo in mano. Capita sempre, quando si vuole sfruttare un successo inatteso (si parla persino di una trilogia). A noi, Glenn Cooper piace ricordarlo così: come l’AD di un’industria di biotecnologie del Massachusetts che ci ha fatto scoprire che, se non ci si monta troppo la testa, la narrativa commerciale di buon livello forse è ancora possibile.

Titolo: La biblioteca dei morti
Autore: Glenn Cooper
Editore: Editrice Nord
Dati: 2009, pp. 439, € 18,60

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