Prima che fosse troppo tardi

Siamo all’inizio degli anni Novanta: il muro di Berlino è appena crollato, portandosi dietro la “cortina di ferro”; l’Unione Sovietica è sul punto di dissolversi, lasciando il mondo brevemente orfano del grande nemico comune contro cui coalizzarsi; la Jugoslavia di Tito scivola rapidamente fuori dal federalismo, in una corsa di lì a poco sfrenata verso l’indipendenza.
Divko Buntic (il sempre bravissimo Miki Manojlovic) decide di rientrare in Erzegovina dopo vent’anni di “esilio” in Germania. Torna, come tutti gli emigranti, deciso a fare bella mostra del suo successo e della nuova posizione che i Deutschmark gli garantiscono nel villaggio natale: arriva alla guida di una Mercedes rosso fiammante, accompagnato da una fidanzata giovane e fin troppo “moderna”, Azra (Jelena Stupljanin), e da Bonny, il suo gatto nero portafortuna.

Come prima cosa Divko fa sfrattare sua moglie Lucija (Mira Furlan) dalla casa di famiglia in cui era rimasta ad abitare durante la sua assenza e ne riprende possesso come niente fosse, con la pentola della minestra sul fuoco; poi cerca di conquistarsi l’affetto del figlio Martin (Boris Ler), che non aveva mai conosciuto e con il quale non aveva mai cercato di mettersi in contatto. In teoria, Divko è tornato per “sistemare le carte del divorzio” e sposare Azra, ma in pratica sembra che il suo scopo sia tormentare Lucija; il fatto è che i due, da ragazzi, si amavano follemente, benché lei appartenesse a una famiglia di partigiani (comunisti) e lui ad una di ustascia (croati ultranazionalisti e fascisti): “come Romeo e Giulietta – spiega Martin – solo che sopravvivono e si odiano”.

Divko era fuggito dalla Jugoslavia proprio a causa di questa storia familiare, temendo le rappresaglie dei compagni comunisti durante il servizio militare; ma dall’estero ha poi sostenuto finanziariamente l’opposizione al regime socialista e la “causa croata” – fino a quando tutto questo investimento non comincia a rivoltarglisi contro.
Danis Tanovic racconta una storia domestica per niente epica, ambientata in un’estate assolata e sonnolenta, popolata di caratteri minori (ma perfettamente rappresentativi) che fanno parte, in un modo o in un altro, della famiglia: il vecchio sindaco che porta in salvo il busto di Tito, il capitano dell’esercito che non riesce a definirsi serbo invece che jugoslavo, il nuovo sindaco che applica sempre la legge dalla parte del più forte, il migliore amico che si perde nella tuta mimetica; persino il gatto, che a un certo punto decide di partire da solo a esplorare il mondo.

Il film è una specie di “istantanea” scattata su quel lato della Bosnia-Erzegovina – quello vicino alla Croazia – un attimo prima che fosse troppo tardi. Di quelle che si scattano per caso e solo dopo, ritrovandole a distanza di tempo, ci si accorge che hanno fissato dettagli cruciali, che allora sembravano insignificanti. Una tragifarsa sull’amore, la famiglia (il sangue che non è acqua) il mondo che cambia troppo velocemente e certe cose che invece non cambiano mai – come Cirkus Columbia, la vecchia giostra del paese; piena di ironia “alla balcanica” sottile, nera e leggermente assurda.
Senza retorica pacifista, senza elogio della convivenza a tutti i costi; dal regista dello straordinario No Man’s Land, una storia ambientata quando ancora l’idea che si potesse bombardare il ponte di Mostar sembrava impensabile per chiunque. Nelle sale italiane a fine maggio.

Cirkus Columbia
Bosnia-Herzegovina, Francia, Gran Bretagna, Germania, Slovenia, Belgio, Serbia 2010
regia di Danis Tanovic
con Miki Manojlovic, Boris Ler, Mira Furlan, Milan Strljic, Jelena Stupljanin.

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