Electro Deluxe. Funk e pc poco affidabili

Ah, le gioie della modernità. Fidandoti del tuo amato pc da 200 euro – si, lo so, il prezzo doveva mettermi sull’avviso – inizi a scrivere la tua nuova recensione, contando sul fatto che hai una settimana per finirla e prendendoti tutto il tempo necessario a sentire con calma il disco che devi recensire, quando il suddetto malefico arnese decide di praticare un harakiri degno del samurai più coscienzioso lasciandoti – per usare un eufemismo particolarmente grazioso – in braghe di tela. Una settimana e parecchio odio dopo ecco pronta la recensione.

È interessante notare come quello che scrivi perde significato all’incirca otto secondi dopo che lo hai fatto. Iniziavo l’ultima recensione spiegando che mi sarebbe piaciuto, da quel momento in poi, dare un senso alla scelta dei dischi da recensire, basarmi sulla somiglianza tra due artisti, sulla possibilità di tracciare bene o male un percorso coerente, almeno nella mia testa. Tutto questo per accorgermi che in realtà Roots e Hocus Pocus in comune hanno davvero pochino. Sì, entrambi sono gruppi bene o male hip-hop con una band alle spalle, ma al di là di questo non hanno poi molti elementi che li rendano simili. Se seguissi la stessa logica che utilizza last.fm, per cui qualsiasi gruppo rap assomiglia agli Articolo 31, sarei molto soddisfatto di me stesso. Essendo un tantino più esigente lo sono un po’ meno. Ma questa volta rimedio, rimedio eccome. Questa volta vi parlo di un disco, il nuovo album degli Electro Deluxe, Play, che in comune, con gli Hocus Pocus, non con i Roots, ha davvero molto. Innanzitutto una traccia, Between the lines, in collaborazione con 20Syl, frontman e mente degli Hocus Pocus. Poi il suono. Per qualche motivo che non mi è molto chiaro la Francia sta sfornando una serie di gruppi parecchio interessanti, tutti attestati su un sound jazz/funk. Gli Electro Deluxe sono forse un po’ meno commerciabili degli Hocus Pocus, un po’ più jazz e un po’ meno funk, un po’ più strumentali e un po’ meno cantati, ma tutto sommato suonano la stessa idea musicale. Un funk sporcato e portato, di volta in volta, verso territori più soul o verso l’improvvisazione jazzistica, sempre all’interno di binari che tengono in considerazione la lezione imparata da 30 anni di hip-hop.

Su di loro vorrei dire davvero molto, per esempio spiegarvi cosa fanno e da quanto lo fanno, ma il numero di informazioni che ho è davvero minimo. E non è che sono venuto impreparato all’interrogazione. È che proprio la rete sembra si sia dimenticata di loro, sparute informazioni MySpace-iane a parte.
Quello che so per certo è che Play è il loro terzo album. Che anche gli altri due (Hopeful e Stardown) non sono affatto male, anche se i più critici trovano Play meno originale degli sforzi precedenti. Che Play vanta anche delle collaborazioni interessanti, per citarne due Ben L’Oncle Soul (sì, ancora lui) e un rapper di cui mi sfugge il nome. Il motivo è, molto semplicemente, che non ho ancora comprato il disco e online le tracklist sono piuttosto vaghe sui nomi dei collaboratori.

Dato che questa recensione ha più lacune che altro ormai dovrebbe essere piuttosto chiaro che questo Play mi è piaciuto davvero e che una recensione la meritava. Normalmente finirei con una frase del tipo: “se proprio vogliamo trovare un lato negativo” ma in questo caso no, va bene anche così.