Il castello dei matti

Quale natura è la mia
che mille passioni la agitano
e tristezza dolori serene gioie
nel cuore mi sento battere
e follia a volte
come fossi invasato da Furie?
Oh! Io non posso avere la pace
e baciando donne io già penso
alla mia umana poesia
e da esse lontano
lento desiderio sorge
e trema per ogni lembo di carne:
e odio improvviso contro non degni nemici
e volontà di far pace e tutti amare
e lente tristezze come fossi
in un deserto paese sperduto.
Ed anche vorrei che un pesante sonno
mi comprimesse in ogni membro
e mai più potessi
aprire gli occhi al mondo;
ma niente posso e incatenato cammino
chiedendo amore e pace.

«Nel manicomio tutto si svolge tra i muri. È un castello che contiene 1039 matti, circa duecento infermieri e, a quest’ora, un medico e 19 suore… Il manicomio si divide in maschile e femminile. Ciascuna divisione è ordinata e disposta secondo il grado di agitazione e pericolosità. Si parte dai tranquilli e si arriva agli agitati, tutti hanno deliri, alcuni come bestie ruminano e respirano… Piove ancora e i matti son tutti nelle sale a urlare, gesticolare selvaggiamente. In queste sale chiamate ‘‘di soggiorno’’, c’è un puzzo di bestia e di umido». Nessun uso strumentale della patologia per divagazioni pseudo liriche, niente di piacevole né di sostenibile in questa descrizione tratta da Le libere donne di Maggiano (libere manco per niente essendo recluse in un manicomio), diario assurto a testimonianza epocale. C’è solo l’urgenza di riprodurre crudamente la verità di un mondo separato così come appare agli occhi di un giovane medico appena arrivato a prendere servizio, con alle spalle l’esperienza di una guerra mondiale e la lotta partigiana.

Nel castello dei deliri e delle urla, il manicomio di Maggiano (provincia di Lucca), Mario Tobino, poeta-scrittore-psichiatra ha lavorato ed è vissuto per 40 anni, senza mai volersi allontanare, anche quando la legge Basaglia ha sancito l’apertura dei manicomi. Appena ieri il “castello dei matti” è tornato a vivere, anche se di matti non ne contiene più. Dopo anni di abbandono e un lungo restauro dell’ex manicomio (un complesso storico, monumentale e architettonico medioevale di grande pregio), l’ala dell’edificio denominato palazzina Medici in cui c’erano gli alloggi dei medici, e di fatto fu la casa di Tobino, è diventata museo e centro di studi grazie anche al convincimento e all’opera della Fondazione che porta il suo nome. Il museo ospita gli stessi spartani arredi e oggetti che erano parte della quotidianità del medico viareggino: in stanze misere e spoglie ci sono i poveri strumenti medici di un tempo; la scrivania, il letto, i libri, le penne, i quaderni, la macchina da scrivere di Tobino. Ci sono anche fotografie autentiche della vita “a castello”. Il centro potrà contare sulla formazione di un archivio bibliografico, sul riordino della biblioteca e sull’esposizione dei più significativi strumenti medici e scientifici.
La Fondazione Tobino, inaugurata il 20 maggio 2006, intende, infatti, conservare, valorizzare, ma soprattutto far vivere l’eredità culturale di Mario Tobino; riportare alla luce le vicende dell’ospedale fin dalla sua istituzione, recuperare la memoria storica di un’intera comunità, favorire l’indagine critica della produzione letteraria tobiniana e allo stesso tempo farsi strumento di promozione del dibattito regionale e nazionale sul futuro dell’assistenza psichiatrica. Così, mentre c’è un fitto calendario di iniziative a Viareggio, Lucca e in Toscana per celebrare il centenario appena trascorso della nascita dello scrittore (1910-2010), Maggiano diventa capitale e luogo simbolo della psichiatria critica e della storia della medicina; luogo simbolo del disagio sociale e mentale, luogo simbolo della storia della pazzia e dei pazzi, oggi chiamati con scientifica distanza lessicale, psicotici, schizofrenici, ossessivi.

“Nel recupero dei luoghi, la Fondazione – dice il presidente Andrea Tagliasacchi – ha avuto un ruolo importante, come anche nella rinata attenzione verso Tobino. Abbiamo iniziato a riparlarne tanti anni fa con Cesare Garboli e abbiamo continuato a farlo con Enzo Siciliano, riportando in libreria l’autore non solo delle Libere donne ma di Su per le antiche scale, delle Braci dei Biassoli, dell’Angelo del Liponard. Un autore sfuggito alle classificazioni, alle scuole, che è stato in grado di darci, ad esempio, il più intenso e vitale libro sulla Resistenza, Il Clandestino, con cui vinse il Premio Strega. E oggi, grazie all’attenzione delle istituzioni, finalmente la riapertura della ‘città’ di Tobino, del luogo dove curava i suoi malati, e dove ha vissuto quarant’anni anni della sua vita: l’ex manicomio di Maggiano sulle colline di Lucca”.

Non c’è niente da fare. Ci sono medici fatti di altra pasta, altro tessuto umano, altro encefalo, antropologicamente d’altra qualità, che hanno rivoluzionato la psichiatria italiana. Sono quelli che hanno domato l’ombra e soprattutto il pregiudizio facendo della malattia altrui una ragione di vita propria; sono quelli che con intelligenza e cuore si sono spesi per i malati andando a braccetto con l’oscenità di un corpo deragliato, di una mente distorta, frammentata, incoerente, attivando un alto grado d’empatia (termine che in psichiatria ha una pregnanza indimenticabile) con i malati, prima e oltre le terapie, i protocolli, le osservanze cliniche, l’adeguata farmacoterapia. Sono quelli che hanno inteso e praticato la psichiatria come relazione interpersonale innanzitutto, scienza umana rispettosa della dignità e della libertà di ogni essere umano, possibilità d’indagine aperta sul mistero umano.

Ciò che contraddistingue in termini generali questi medici, al di là di definizioni specialistiche che sono al di fuori della nostra portata, è l’humanitas, quindi la capacità di cura, ascolto, immedesimazione nella sofferenza, ricerca di parole, gesti, modalità tese ad alleviare il dolore dell’anima, senza escludere il rigore scientifico e l’aspetto clinico della professione. Si pensi a Eugenio Borgna, direttore da molti anni dell’ospedale psichiatrico di Novara, Antonino Iaria, direttore del Santa Maria della Pietà di Roma, Bruno Callieri, che fu direttore dell’ospedale psichiatrico di Guidonia, figura emblematica di medico-filosofo, Vittorino Andreoli che trasformò il manicomio di Verona in atelier di pittura; Arnaldo Ballerini, che ha diretto una delle prime esperienze italiane di psichiatria di comunità ed è stato con Callieri fautore della società italiana di psicopatologia che trae la sua ragione d’essere e di praticare la psichiatria dalla fenomenologia.
Per Tobino, che lavorò e scrisse accanto ai suoi pazienti per decenni, non può esserci psichiatria senza introspezione e senza immedesimazione, senza attitudine all’intuizione e alla percezione di quello che si nasconde nel cuore dell’essere umano, sano o malato. Per queste sue idee, i suoi libri sulla follia, testimonianza dell’esperienza vissuta, sono sempre stati ignorati dal punto di vista psicopatologico. Vivace, combattivo, instancabile, rimase perplesso verso gli psicofarmaci e all’indomani della riforma Basaglia che pure ha tanto mutato le condizioni ospedaliere: «Mi sorgono in ridda veementi interrogazioni contro il dominio chimico, contro le pasticche cariche di psicofarmaci capaci di mettere un’altra camicia di forza forse più dolorosa. Cosa è successo? È una meravigliosa rivoluzione? L’oscuro appassionato amore di tanti medici di manicomio, si è fatto verità?».

Dal suo arrivo negli anni ’50, la gestione dell’anomalo “castello”, fu impostata in modo rivoluzionario: divenne uno spazio dove utilizzare la malattia per fare esperienza della vita senza pregiudizi. Premessa indispensabile è che all’epoca bastava meno di niente per essere ricoverati: un’alterazione rispetto ai parametri di una normalità apparente, una depressione post partum, una malinconia opprimente, uno scatto o un esaurimento erano un ottimo spunto che consentiva alle famiglie di liberarsi di personaggi scomodi, ingombranti, ingestibili. Qualcosa del genere capitò ad Alda Merini.

Tobino inventò percorsi di vita attivi e condivisi fuori e dentro le mura, coinvolgendo gli abitanti dei dintorni e facendoli partecipi della vita a castello; creò insomma un manicomio aperto, ben diverso dalle strutture lager. Di questa vita in manicomio, come si diceva, resta il diario, “Le libere donne di Magliano”. Tobino in polemica aperta con i cultori dell’antipsichiatria, negli anni ’70 riscrisse la prefazione al volume alla luce dell’evoluzione farmacologica e terapeutica della cura, svelando un’affezione al manicomio, microcosmo di disperazione, di umanità inesplosa, altra: «… accade che un uomo infuriato entra in manicomio e con poche pasticche, già al secondo o terzo giorno si placa, fa come un tizzone immerso nell’acqua, che frigge e fuma, ma non più sfavilla l’incendio. E può accadere – non sempre, con discreta frequenza – che spesso si ricostituisce, si stabilizza, torna ritto in piedi ed esce come un uomo dal cancello dell’ospedale. Questo è uno dei più fortunati, che ha incontrato il suo preciso psicofarmaco. Ma altri, tanti altri, sulla soglia del manicomio, sembrano già guariti e non lo sono. Per questi il medico non imbroccò, ancora è tutto empirico. Gli psicofarmaci ebbero il potere di rompere le nebbie, non di purificare tutto. (…) Io in qualche giorno anche recente ho sentito gravare sull’ospedale un silenzio sospeso, come di vana attesa, come si fosse riusciti a portare i malati sulla soglia della nostra libertà, ma poi era tutto inutile, non si riusciva a portarli al di là, dar loro le ali, far battere tranquillo e sicuro il corso del loro pensiero».
La malattia diventa così simbolo di incompatibilità con il mondo di fuori, da parte di chi pecca di troppa delicatezza, delirio amoroso, delirio esistenziale, risposta psicotica eccessiva. Nello sguardo di un pazzo però puoi trovare il tuo riflesso se sei onesto.

“La pazzia è davvero una malattia? Non è una delle misteriose e divine manifestazioni dell’uomo? Non esiste per caso una sublime felicità che noi chiamiamo patologica e superbamente rifiutiamo?” Si interroga Tobino.

“Questi matti sono ombre con le radici al di fuori della realtà, ma hanno la nostra immagine (anche se non precisa ), mia e tua, o lettore. Ma quello che è più misterioso domani potranno avere, guariti, la perfetta immagine, poi di nuovo tornare astratti, solo parole, soltanto delirî. Dunque è il nostro incerto equilibrio che pencola, e insuperbiamoci e insieme siamo umilissimi, che siamo soltanto uomini capaci delle opposte cose, uguali, nel corso delle generazioni, alla rosa dei venti” (LLDM, p. 18).
Pazzia e alienazione sono i modi in cui dichiararsi nudi, fragili, umani: “La pazzia sgomina tutte le ipocrisie”. Per questo Tobino non se la sentì mai di separarsi dai suoi matti. Anche dopo la Basaglia, anche dopo la pensione.
“La mia vita è qui, nel manicomio di Lucca. Qui si snodano i miei sentimenti. Qui sincero mi manifesto. Qui vedo albe, tramonti, e il tempo scorre nella mia attenzione. Dentro una stanza del manicomio studio gli uomini e li amo. Qui attendo: gloria e morte. Di qui parto per le vacanze. Qui, fino a questo momento, son ritornato. Ed il mio desiderio è di fare di ogni grano di questo territorio un tranquillo, ordinato, universale parlare”. Attraverso i matti Tobino è riuscito ad amare l’umanità. Tra i sani si sente poco tutto questo amore per l’umanità. Anzi capita che tra i normodotati di reciproco non ci sia che un odio declinato in mille modi e varianti, in crescita esponenziale quanto l’ipocrisia. L’importante è padroneggiare l’arte della finzione.

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