Femminuccia a chi?!

“Tomboy” è l’equivalente inglese di “maschiaccio”: una bambina o una ragazzina che preferisce le cose “da maschio”, dai capelli corti ai vestiti, i giocattoli, gli sport. Quest’attitudine, fortemente ostracizzata e addirittura sanzionata in passato (persino con le cure psichiatriche, ai tempi in cui la medicina credeva nelle virtù normalizzanti dell’elettroshock) perché vista come un segnale precoce di tendenze omosessuali, oggi viene considerata piuttosto una fase di passaggio, un capriccio transitorio, quasi un gioco di ruolo: adesso che è piccola si ostina a giocare con le macchinine, ma da grande vorrà anche lei rossetto, minigonna, un abito da sposa come quello di Kate Middleton e tanti bambini…

Il titolo del film è esplicito, la trama è lineare e il trailer non lascia dubbi: questa è la storia di Laure, una ragazzina di 10 anni che si fa passare per maschio, Mickaël, nel gruppo di bambini del caseggiato in cui si è appena trasferita con la famiglia. Tutto nasce, in effetti, da un equivoco: è Lisa che scambia Laure per un bambino, offrendole l’inattesa opportunità di cambiare sesso e permettersi così di fare per davvero tutto quello che fanno i maschi, esattamente come lo fanno loro, compreso sputare per terra e togliersi la maglietta durante le partite di calcetto; le bambine invece, si sa, non sono mai brave a giocare a pallone.
Il trasloco durante le vacanze, un papà sempre fuori per lavoro e una mamma all’ultimo mese di gravidanza sono espedienti narrativi semplici ma sensati per spiegare come Laure/Mickaël riesca a mantenere in piedi la sua bugia così a lungo. La prima a scoprirla è la sorellina Jeanne – una femminuccia in piena regola, con tanto di boccoli e tutù – che si impegna a mantenere il segreto in cambio dell’accesso al favoloso mondo del cortile; ma col candore dei sei anni, la transazione di interesse diventa immediatamente gioco (e, ipso facto, realtà) anche per Jeanne, improvvisamente fierissima di avere un fratello forte e coraggioso che può difenderla dai cattivi.

Sarà proprio questo cortocircuito fra ruoli di genere, alla fine, a tradire Laure, che prende a pugni un bambino per aver maltrattato Jeanne. Come maschio, Mickaël è il miglior calciatore, il più forte a fare a botte e anche l’unico che Lisa abbia voglia di baciare; ma quando sua madre la obbliga a indossare un vestito da femmina e a dare spiegazioni alle famiglie dei suoi amichetti, Laure è umiliata, impaurita e vulnerabile. La finzione d’altra parte non poteva durare, perché nel quartiere c’è una sola scuola e tutti a breve avrebbero comunque scoperto la verità; questo è l’argomento della mamma, nell’unico momento in cui un adulto reciti davvero una parte: la razionalità dei grandi contro la beata incapacità di pensare alle conseguenze che hanno i bambini.

Céline Sciamma, giovane regista e sceneggiatrice francese, già autrice di una premiata opera prima (La naissance des pieuvres, 2007) sull’adolescenza e la scoperta della (omo-)sessualità, riesce con estrema grazia nel sempre rischioso intento di mettere in scena l’infanzia centrando il racconto direttamente – e anzi esclusivamente – sui bambini invece che sull’idea che dei bambini abbiamo noi adulti. Ne risulta una narrazione leggermente straniante, scandita da quel ritmo particolare che hanno le vacanze estive e i pomeriggi passati in cortile mentre i grandi riposano, e da dialoghi frammentari, irrilevanti, perfettamente infantili, che inframezzano le riprese come una specie di colonna sonora. È un mondo in cui tutto può succedere e tutto è perfettamente vero e le emozioni, belle e brutte, sono di un’intensità cristallina per chi le vive per la prima volta.
Il film evita qualsiasi elemento di controversia: i genitori di Laure assecondano il suo essere maschiaccio senza criticarla e persino la rabbia dei compagni di giochi, alla fine, sembra essere legata più all’umiliazione per essere stati presi in giro da una femmina che alle professioni di “schifo” con cui la assalgono. Forse è una scelta un po’ di comodo (siamo di certo lontani anni luce dalla carica drammatica di Boys don’t cry e anche dalla potenza immaginifica di Ma vie en rose), ma rimane stilisticamente coerente con l’età dei protagonisti e con l’idea – suggerita dal titolo e dall’atteggiamento dei genitori – che magari sia tutto solo una specie di gioco, un modo per attirare l’attenzione, una cosa senza importanza. Anche se, da ultimo, l’autrice strizza l’occhio…

Tomboy si è aggiudicato il premio speciale della giuria 2011 dei Teddy Awards, gli orsi di peluche attribuiti in occasione della Berlinale ai migliori film e documentari che trattano il tema dell’omosessualità; per la delicatezza del suo sguardo sull’infanzia, comunque, il film merita sicuramente di essere visto anche fuori dai circuiti LGBT, soprattutto da ragazzine e ragazzini (figlie, cuginette, nipoti, sorelle minori) a cui speriamo di insegnare un’idea più ampia di normalità.

 

Tomboy
Francia, 2011
regia di Céline Sciamma
con Zoé Héran, Malonn Lévana, Jeanne Disson
durata 82 minuti

presentato in anteprima al Festival GLBT di Torino (aprile 2011)
nelle sale in Italia dal 7 ottobre 2011